Leasing traslativo e leasing di godimento: una distinzione superata? - Studio Legale Turci

Leasing traslativo e leasing di godimento: una distinzione superata?

La Corte di Cassazione (sentenza 27545 del 28 ottobre 2019) è tornata nuovamente a pronunciarsi sul tema degli effetti della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore nel contratto di leasing.

Nell’ultimo anno, le sezioni semplici della Cassazione hanno affrontato a più riprese la questione, dando vita a un netto contrasto giurisprudenziale (vedasi “Perdurante contrasto tra le sezioni semplici sulla disciplina della risoluzione per inadempimento del contratto di leasing”), che vede contrapposte pronunce in cui, in ossequio alla tradizionale distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, si riconduce la risoluzione dei due tipi di contratto rispettivamente agli articoli 1458 e 1526 del codice civile, e pronunce che, a seguito delle recenti scelte legislative in materia (da ultimo, con la l. 124 del 2017), riconducono tutti i casi di risoluzione di contratto di leasing ad un’unica disciplina.

Secondo l’orientamento tradizionale, soltanto nel caso di risoluzione dei leasing cd. traslativi, soggetti all’applicazione dell’art. 1526, sorgerebbe l’obbligo in capo al concedente alla restituzione dei canoni già pagati. Secondo l’orientamento inaugurato dalla sentenza n. 8980 del 29 marzo 2019, invece, tutti i contratti di leasing dovrebbero essere regolati secondo il medesimo principio di diritto.

A distanza di pochi mesi, con la sentenza n. 22731 del 12 settembre 2019 la Corte non si limita a ribadire l’orientamento giurisprudenziale più recente, ma compie un passo in più.

La questione verte nuovamente sull’applicabilità del nuovo regime per la risoluzione del contratto di leasing anche a contratti che ratione temporis non sono soggetti alla l. 124/2017.

Le pronunce in cui la Cassazione si è mostrata favorevole ad una tale estensione erano caratterizzate dal ricorso all’art. 72-quater della l.fallimentare, che prevede un regime analogo alla l.124/2017 nel caso di risoluzione ad opera del curatore fallimentare, essendo l’articolo “del tutto coerente con la fisionomia unitaria del leasing finanziario di cui alla L. 124/2017 art. 1 commi 136-140, dovendo ritenersi definitamente superata la distinzione, di matrice giurisprudenziale, tra leasing c.d. «di godimento» e «leasing traslativo» ed il ricorso in via analogica, per tale seconda figura, alla disciplina dettata dall’art. 1526 c.c.” (così la Cassazione nella sentenza 12552/2019).

Nella successiva sentenza n. 22731 la Corte si svincola dal richiamo all’art. 72-quater e riafferma il citato orientamento sulla base dei principi generali di correttezza e buona fede in materia contrattuale.

Il caso di specie ha ad oggetto un contratto di leasing corredato da una clausola penale in forza della quale, in caso di inadempimento dell’utilizzatore, questi deve corrispondere al concedente il valore attualizzato dei canoni scaduti e a scadere, eventualmente scontati del valore derivante della vendita del bene. Adita con un motivo di ricorso vertente sula legittimità di siffatta clausola, la Corte ha ritenuto di non soffermarsi sul contenuto della stessa, spettante al giudice di merito, ma piuttosto sul regime generale in caso di risoluzione di contratto di leasing e sulla distinzione tra leasing traslativo e di godimento.

In particolare, la Corte afferma che “costituisce una questione di diritto la questione dell’applicabilità o meno dello ius superveniens di cui alla L. n. 124 del 2017 che, all’art. 1, commi 138 e 139 ha dettato una disciplina unica per l’ipotesi della risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore, individuando tra le altre cose gli importi richiedibili dal concedente. Trattandosi di normativa volta a regolare in via generale gli effetti economici della risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore deve ritenersi che essa sia applicabile anche nei giudizi in corso, pur se pendenti nella fase di legittimità bastando che la nuova normativa interferisca con le questioni ancora dibattute” e tale soluzione sarebbe l’unica praticabile, dal momento che  “il meccanismo normativo funziona ed ha un senso se l’utilizzatore restituisce il bene, perché solo in tale caso il concedente è messo in condizioni di vendere il bene e di corrispondere il ricavato all’utilizzatore. Se questo non accade l’iter si inceppa. Orbene la ratio legis, evidenti ragioni di logica e un’interpretazione ispirata ai principi di buona fede e correttezza impediscono di pensare che l’utilizzatore possa beneficiare dei propri inadempimenti appunto per bloccare tutto, negando alla concedente la corresponsione dei canoni scaduti, di quelli da scadere e di tutto il resto che le spetta. La restituzione del bene è il presupposto per l’esercizio dei diritti da parte dell’utilizzatore. Una diversa conclusione non avrebbe senso. ”.

La sentenza n. 18543 del 10 luglio 2019 la Corte era giunta a conclusioni simili, affermando l’applicabilità del nuovo regime previsto dalla l. 124/2017 non in maniera retroattiva, ma bensì in forza di un’interpretazione sistematica e storico-evolutiva dell’istituto, non più atipico data la precisa presa di posizione del legislatore in merito.

Questo orientamento viene confermato e rafforzato dalla recente sentenza 27545 del 28 ottobre 2019, nella quale la Corte riprende parte della sentenza 18543, ed afferma quindi che “non si tratta di attribuire carattere retroattivo (in assenza di norme di diritto transitorio) alla nuova disciplina portata dalla L. n. 124 del 2017, ma di fare concreta applicazione della c.d. interpretazione storico-evolutiva, secondo cui una determinata fattispecie negoziale, per quegli aspetti che non abbiano esaurito i loro effetti, in quanto non siano stati ancora accertati e definiti con statuizione passata in giudicato, non può che essere valutata sulla base dell’ordinamento vigente, posto che l’attività ermeneutica non può dispiegarsi “ora per allora”, ma all’attualità” contribuendo così a delineare quello che potrebbe presto imporsi come orientamento prevalente in materia di risoluzione di leasing finanziario.

Parallelamente a questa giurisprudenza, che con sempre maggior forza riconduce la disciplina degli effetti della risoluzione del contratto di leasing, indipendentemente dalla sua natura traslativa o di godimento, alla medesima disciplina, altra parte della giurisprudenza di Cassazione continua a fare ricorso alla tradizionale distinzione tra le due categorie di leasing, talvolta senza far menzione del più recente orientamento (è questo il caso, ad esempio, della sentenza n. n.25768 del 14 ottobre 2019), talvolta invece ponendosi in espresso contrasto con il più recente filone giurisprudenziale.

Nella sentenza n. 25031 dell’8 ottobre 2019, infatti, la Corte dimostra di aver una chiara consapevolezza del contrasto giurisprudenziale in atto, così dimostrando come queste sentenze non si limitino a seguire una semplice tradizione giurisprudenziale, ma bensì facciano applicazione di un principio di diritto ritenuto più corretto. Si legge infatti : “Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, l’introduzione nell’ordinamento, tramite il d.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 59, dell’art. 72 quater L.F. non consente di ritenere superata la tradizionale distinzione tra leasing finanziario e leasing traslativo, e le differenti conseguenze (nella specie, l’applicazione in via analogica dell’art. 1526 c.c.) che da essa derivano nell’ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore”.

Nonostante la maggiore consapevolezza della posizione di contrasto qui assunta dalla Corte, appare evidente che alla luce della citata sentenza n. 22731 il contrasto ora non si limita all’applicabilità dell’art. 72-quater l.fall. e che un eventuale ulteriore ritorno alla distinzione tra leasing traslativo e di godimento dovrà dare conto dei nuovi argomenti proposti dalla decisione in rassegna.

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